lunedì 28 novembre 2016

Alternanza scuola-lavoro: opportunità di formazione o regalo alle imprese?

Qualche settimana fa il MIUR ha siglato un accordo con il colosso del fast food “McDonald’s” nell’ambito della c.d. “alternanza scuola-lavoro” (istituita con la legge 107/2015, meglio conosciuta come “Buona Scuola”). Si tratta di un percorso formativo (concordato con la Scuola) all’interno di un’azienda della durata di 200 ore per i licei, 400 per gli istituti tecnici.
Questa notizia ha riacceso il dibattito su questo tema: da un lato, viene vista come una misura necessaria per evitare la dispersione scolastica ed aumentare l’occupazione; dall’altro, c’è il timore che le aziende possano sfruttare la cosa solo per avere manodopera a costo zero (a cosa serve assumere personale se c’è un ricambio di tirocinanti?).
Per capire come funziona l’alternanza scuola-lavoro voluta dal Ministro Giannini, basta leggere la guida operativa pubblicata sul sito del MIUR: l’obiettivo è quello di fornire una formazione “pratica” coerente col percorso di studi degli studenti.
Vengono create delle apposite convenzioni tra scuola-azienda, nelle quali sono descritte le condizioni dell’alternanza scuola-lavoro: attività da svolgere, norme e le regole da osservare, gli obblighi assicurativi ecc. Ogni studente fa riferimento a due tutor: quello interno (un docente della scuola) e uno esterno (scelto all’interno dell’azienda); in linea di massima, il primo si occupa di delineare il percorso dello studente, monitorare l’andamento del tirocinio ed informarne gli organi competenti (il consiglio di classe, o il comitato scientifico). Il secondo affianca lo studente nelle attività all’interno dell’azienda (che può essere svolta anche durante la sospensione delle attività didattiche).
Alla fine dell’esperienza in azienda c’è una valutazione e il conseguente rilascio di una certificazione (è necessaria la frequenza di almeno tre quarti del monte ore previsto dal progetto) che viene indicata nel curriculum dello studente (inserito nel “Portale Unico della Scuola”[1]).
L’alternanza scuola-lavoro ha valore ai fini della valutazione dello studente durante lo scrutinio finale che dà accesso all’esame di Stato e, quindi, anche sull’attribuzione dei crediti scolastici.
I sostenitori dell’alternanza scuola-lavoro affermano che nel resto d’Europa questa è presente da decenni e che le aziende spesso assumono i ragazzi che hanno svolto il tirocinio, come ad esempio in Germania. Purtroppo però non si tiene conto del fatto che la Germania ha un sistema scolastico completamente diverso dal nostro e soprattutto non ha i nostri problemi legati al mercato del lavoro.
Innanzitutto va detto che Italia e Germania hanno due concezioni diverse di scuola: per noi è il mezzo principale per diffondere la cultura, acquisire gli strumenti per capire il mondo che ci circonda e prendere decisioni. In Germania la scuola è concepita quasi esclusivamente per formare ragazzi in un determinato lavoro.
Questa differenza si nota già confrontando le tipologie di scuole ed i relativi titoli rilasciati.
Noi abbiamo istituti tecnici o licei, che formalmente rilasciano un titolo di studio abbastanza simile (tutte le tipologie di diploma danno accesso all’università). In Germania  invece ci sono tre tipi di scuole: Hauptschule – Realschule – Gymnasium (equivalenti alle nostre scuole superiori) molto diverse tra loro: le prime due sono concepite esclusivamente per una formazione professionale in un dato settore, mentre l’ultima è l’unica che fornisce un bagaglio culturale teorico più approfondito e che consente l’accesso a qualsiasi università dopo il diploma.
La Hauptschule è una tipologia di scuola che fornisce la qualifica di “operaio specializzato”, “lavorante artigiano” oppure “assistente commerciale”. In tutto dura cinque anni: dopo i primi due (in età di 14/15 anni) si consegue una qualifica che dà accesso ai  tre anni dedicati all’apprendistato (la frequenza a scuola è di due giorni a settimana, mentre i restanti giorni si lavora in azienda e vi è anche una piccola retribuzione).
La Realschule dura sei anni e, rispetto alla prima, fornisce una formazione teorica più articolata; dopo il diploma (in età di 15/16 anni) si accede alla Fachoberschule, una scuola professionale a tempo pieno della durata di due anni (ce ne sono diversi tipi, ognuna specializzata in un settore, ad es: tecnologia, economia e dell’amministrazione, scienze dell’alimentazione, scienze sociali ecc..). Anche qui gli studenti alternano ore in aule ed ore in azienda (il primo anno si lavora 4 giorni a settimana, il secondo è dedicato principalmente alle lezioni teoriche); alla fine del biennio gli studenti ottengono il certificato “Fachhochschulreife” che li qualifica per l’accesso alla “Fachhochschule” (Istituto universitario che offre un insegnamento orientato all’applicazione pratica, in particolare nei settori dell’ingegneria, dell’impresa, dell’amministrazione, dei servizi sociali e della moda).
Il Gymnasium dura otto/nove anni (a seconda dei Land); equivale ai nostri licei, il diploma da accesso a qualsiasi facoltà universitaria.[2]
La differenza è evidente: in Germania i neodiplomati hanno alle spalle un’esperienza lavorativa considerevole, che permette loro di acquisire una qualifica spendibile immediatamente nel mondo del lavoro (magari proprio all’interno delle aziende dove hanno svolto l’apprendistato); in Italia invece abbiamo imposto dei tirocini che non sempre hanno un senso: che tirocinio possono svolgere ad esempio gli studenti di un liceo classico? Difficile trovare delle aziende/enti dove poter applicare le conoscenze di letteratura latina o greca, ma le 200 ore di alternanza scuola-lavoro sono obbligatorie, e quindi escono fuori tirocini fantasiosi in raffinerie, come è successo a Cagliari, oppure corsi di psicologia per gli studenti del liceo scientifico.
Viene poi da chiedersi quale valore aggiunto possa dare l’alternanza scuola-lavoro dentro un ristorante McDonald’s dove gli studenti, citando le dichiarazioni dell’azienda, svolgeranno “attività di accoglienza e relazione con il pubblico”… Cioè? Accompagneranno le persone al tavolo? Aiuteranno nella decisione del piatto da ordinare? Cercheranno di calmare un cliente arrabbiato per un hamburger poco cotto o la mancanza di ketchup e patatine? Per questo tipo di lavoro esiste già una scuola apposita, l’istituto alberghiero, dove si impara a lavorare in un ristorante attraverso stage (retribuiti) in importanti catene di alberghi/ristoranti dove sicuramente si apprende davvero un mestiere.
I tirocini possono avere un senso dove c’è davvero un collegamento tra scuola ed azienda: se, per esempio, voglio diventare un perito elettrotecnico e svolgo l’alternanza scuola-lavoro all’interno di un’azienda che si occupa di impianti elettrici industriali, allora sicuramente posso imparare qualcosa di utile. Ma, come detto prima, noi non siamo la Germania: la maggior parte degli imprenditori italiani per assumere chiede determinate qualifiche (derivanti da corsi di formazione post diploma/post laurea) oppure esperienza pregressa; da noi non c’è quella mentalità secondo la quale un’azienda decide di formare una persona pensando che, in futuro, quella stessa persona lavorerà seguendo i principi e le metodologie dell’azienda, portando quindi un valore aggiunto.
In Italia le aziende non hanno voglia di insegnare, perché credono che quello sia un compito esclusivamente spettante alla scuola, quindi cosa succede se si hanno a disposizione ragazzi gratis da poter utilizzare come si vuole? Semplice: li si utilizza per attività noiose, magari nemmeno attinenti a ciò che studiano. Queste non sono mere supposizioni: basta considerare quello che accade con i tirocini di Garanzia Giovani: persone che lavorano sei mesi (a spese delle Regioni) all’interno di aziende che nella maggior parte dei casi non li assumono e soprattutto non li formano sul serio.
Quindi, in sintesi, in Germania i ragazzi svolgono un vero e proprio apprendistato (anche retribuito) durante il periodo scolastico che permette di imparare un mestiere. In Italia invece abbiamo un’alternanza scuola-lavoro gratuita che non insegna quasi nulla – tant’è che, dopo il diploma, ci si troverà comunque a dover fare corsi, stage semi-gratuiti, lavorare un periodo a nero per poi riuscire a trovare un impiego pagato con i voucher.
Non dico che è sbagliato far conoscere il lavoro agli studenti delle scuole superiori; il problema è che qui parliamo di un’alternanza scuola-lavoro che, per come è strutturata, non può garantire un’esperienza davvero formativa. Un sistema del genere può funzionare solo quando, da un lato, c’è una scuola che crea dei percorsi formativi in azienda coerenti con il piano di studi degli studenti e, dall’altro, ci sono imprese che hanno voglia di insegnare (e non sfruttare). Sono condizioni che il Ministro dell’Istruzione non può garantire; questo tipo di alternanza scuola-lavoro può insegnare solo una cosa: lo sfruttamento legalizzato all’interno di un’azienda (giusto per far capire subito ai ragazzi cosa c’è dopo la scuola).
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[1] È un portale dove vengono pubblicati tutti i dati relativi al sistema di istruzione: bilanci delle scuole, Anagrafe dell’edilizia, Piani dell’offerta formativa, dati dell’Osservatorio tecnologico, Cv degli insegnanti, incarichi di docenza ed anche i Cv degli studenti (da dove si possono consultare informazioni come il percorso degli studi, le competenze acquisite, eventuali scelte degli insegnamenti opzionali, esperienze formative in alternanza scuola-lavoro)
[2] Portale Ufficio scolastico Regionale per L’Emilia – Romagna http://istruzioneer.it/ – PDF
 Portale Eurydice Italia http://eurydice.indire.it/  PDF

Articolo per Siderlandia.it

lunedì 15 febbraio 2016

Garanzia Giovani: la trappola burocratica che alimenta il precariato

«La Garanzia Giovani (Youth Guarantee) è il Piano Europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile». Sulsito ufficiale viene presentato in questo modo il programma Garanzia Giovani, il cui obiettivo è quello di inserire nel mercato del lavoro i giovani che non studiano e non lavorano.
Sostanzialmente il funzionamento del progetto è il seguente: con i fondi stanziati dall’UE viene data la possibilità alle imprese di poter reclutare dei tirocinanti che vengono pagati direttamente dell’INPS (450€ lordi al mese per un tirocinio di 30 ore settimanali della durata di 6 mesi);  il costo per l’impresa quindi si riduce a poche centinaia di Euro per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Le aziende possono anche usufruire  del c.d. “accompagnamento al lavoro”: uno sgravio fiscale se assumono il candidato a tempo indeterminato (in Puglia, a differenza di altre regioni, questa agevolazione non viene riconosciuta per i contratti a termine).
I fondi vengono utilizzati anche per attività come formazione, presa in carico, orientamento (svolte dalle ATS[1]) servizio civile regionale e nazionale, sostegno all’auto-impiego e all’auto-imprenditorialità.
Vista in questo modo, si potrebbe pensare di trovarsi di fronte a delle opportunità. La realtà purtroppo è ben diversa e si materializza già dal momento in cui si fa l’adesione al programma.
Il primo passo è l’adesione online: entro 60 giorni (teoricamente) si viene convocati dal Centro Per l’Impiego, il quale prima organizza un incontro informativo per verificare che i candidati abbiano i requisiti per usufruire delle misure previste dal programma, e poi (dopo aver fissato un appuntamento) convoca il candidato per firmare il patto di servizio.
A Taranto già in questa fase preliminare iniziano i primi problemi: il Centro per l’Impiego è notoriamente a corto di personale, quindi molti ragazzi che aderiscono al programma vengono convocati dopo i 60 giorni previsti (io personalmente ho firmato il patto di servizio dopo 120 giorni dall’adesione, e tanti sono nella mia stessa situazione).
Il secondo passo è la scelta dell’ATS: capita spesso che, nonostante i candidati scelgano regolarmente l’ATS dal portale dedicato, ci siano dei problemi di natura tecnica; e qui comincia l’odissea, perché per risolvere la questione può passare anche un mese.
Se tutto viene risolto, si arriva al terzo step: l’assunzione da parte dell’azienda o l’attivazione del tirocinio. Nel secondo caso i problemi sono di natura economica: il rimborso spese viene erogato direttamente dall’INPS con notevole ritardo. Ci sono molti ragazzi che hanno avuto il rimborso dopo la fine del tirocinio; ad altri era stato detto che sarebbero stati pagati ogni due mesi ma, a tirocinio quasi ultimato, non hanno visto ancora un Euro. Va aggiunto poi che molti ragazzi ci stanno rimettendo perché devono sostenere le spese di trasporto per raggiungere le aziende dove svolgono il tirocinio.
Per capire la situazione basta vedere l’ultimo elenco delle indennità pubblicato sul sito della Regione: ci sono tirocinanti che hanno cominciato ad agosto e stanno ricevendo le prime due mensilità a gennaio.
Qui le colpe sono della Regione Puglia: alle regioni infatti vengono assegnati i fondi, i quali poi vengono distribuiti per le varie misure previste. Il ruolo di coordinamento che la Regione Puglia dovrebbe avere a quanto pare ha numerosi problemi. Sulla questione dei pagamenti l’assessore al Diritto allo Studio, alla Formazione e al Lavoro della Regione Puglia, Sebastiano Leo, con un comunicato del 12 novembre 2015, ha dichiarato che i ritardi dipendono da «l’enorme numero di richieste unitamente alla complessità della valutazione delle pratiche, spesso incomplete e da integrare». Quindi sostanzialmente si tratta di un intoppo burocratico: siamo nel 2016 e per attivare un semplice tirocinio dobbiamo ancora produrre un sacco di documenti e passare per vari enti, quindi per un foglio compilato male o mancante una persona si ritrova a lavorare senza ricevere il rimborso spese. Come è possibile che i tirocini vengano attivati se le pratiche sono “incomplete e da integrare”? Invece di fare un controllo ex post sarebbe più logico verificare la documentazione prima dell’inizio del tirocinio. Non si poteva pensare ad un procedimento più snello considerando che abbiamo a disposizioni PC e connessioni internet?
Un altro scandalo è il fatto che i Centri per l’Impiego non vengano supportati come dovrebbero. Posso dire per esperienza personale che quello di Taranto è lasciato letteralmente all’abbandono. Durante la mia profilazione c’è stato un problema di comunicazione dei miei dati al Ministero; sono stata più volte al CPI e tutti gli operatori di Garanzia Giovani con cui ho parlato hanno provato a risolvere la questione (tengo a precisare che in questa situazione ho avuto sempre a che fare con persone competenti, disponibilissime e gentilissime: cosa che non accade spesso negli enti pubblici). Purtroppo però si trattava di un errore tecnico del portale. In questi casi ci vorrebbe l’intervento diretto dell’Ufficio competente; il problema è che il CPI (non per sua volontà) non ha un canale diretto con chi risolve queste problematiche, quindi sostanzialmente ci sono volute quasi tre settimane di invii di segnalazioni ed e-mail per sbloccare la situazione (in un sistema efficiente ci dovrebbe essere, almeno per i CPI, un call center da poter contattare per spiegare la situazione in tempo reale e risolvere la questione).
A questo punto viene spontaneo chiedersi come sia possibile che un programma del genere possa davvero essere uno strumento per la lotta alla disoccupazione.
Le aziende avevano già la possibilità di poter attivare i tirocini: in Puglia si può assumere un laureato a 450€ al mese netti (pagati dall’azienda) per 30 ore settimanali senza ulteriori spese (tranne l’INAL), quindi niente contributi da versare, ferie pagate, malattie ecc. Molte imprese approfittano di questo strumento perché, come per Garanzia Giovani, non c’è l’obbligo di assunzione, quindi c’è un ricambio di stagisti ogni sei mesi senza limiti di alcun tipo.
Il problema fondamentale è che ciò che sulla carta risulta come “tirocinio” è un lavoro vero e proprio; nel momento in cui si viene inseriti all’interno di un contesto lavorativo c’è ovviamente un periodo più “formativo”, ma di certo dura molto meno di sei mesi. Sia chiaro, non dico che ogni azienda dopo un colloquio deve assumere il candidato a tempo indeterminato così, sulla fiducia; è giusto che ci sia un periodo di prova per valutare se la persona è davvero in grado di svolgere il proprio lavoro, ma non è normale vedere aziende che reclutano continuamente stagisti senza poi assumere nessuno. E questo non dipende dalla crisi: gli stagisti vengono assunti in continuazione per una questione di convenienza, altrimenti non si spiega perché anche le grandi multinazionali (perfettamente in salute) rimpiazzano stagisti con altri stagisti. Oppure dobbiamo credere che nessuno in questo paese è in grado di lavorare?
Purtroppo Garanzia Giovani non è visto dalle aziende come una opportunità per poter trovare forza lavoro qualificata per la propria impresa, ma solo un modo per avere un lavoratore gratis da poter rimpiazzare con un altro lavoratore gratis dopo sei mesi. Questo si capisce facilmente dai dati: come si può leggere nel 26esimo report di monitoraggio dei 9320 giovani avviati a misura di politica attiva quelli assunti a tempo indeterminato sono 2044.
Combattere la disoccupazione significa creare le condizioni per far si che i giovani possano essere assunti con un contratto “vero” (cioè quello che prevede una idonea retribuzione, il versamento dei contributi ecc..), e questo incide positivamente sull’economia perché, detto in modo molto semplice, se la gente non lavora non ha soldi da spendere, e se nessuno acquista i prodotti/servizi delle imprese queste falliscono (lasciando a loro volta altri lavoratori a casa senza stipendio).
Avevamo davvero bisogno di buttare i fondi dell’UE per creare un sistema pieno di intoppi burocratici che fa tutto tranne garantire la lotta alla disoccupazione? Quei fondi potevano essere utilizzati in modo più intelligente, prevedendo solo gli incentivi fiscali per le assunzioni con contratti “veri”, oppure consentire il finanziamento del tirocinio ma con obbligo di assunzione alla fine dei 6 mesi.
Sarà che sono troppo “choosy” (come asseriva l’ex Ministro Fornero), ma sinceramente io in questo “Piano Europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile” vedo pochissime opportunità e tanti modi per aumentare il precariato.
L’opportunità è quella che ti da un’azienda che ti fa svolgere un tirocinio pagato proporzionalmente alle ore lavorate ed al tuo livello di formazione, con accredito puntuale dello stipendio e la possibilità di essere assunti nel momento in cui si dimostra di essere capaci di saper lavorare.
Essere inseriti in un sistema dove è legale farti lavorare per 450€ al mese lordi, e vedere la tua dignità calpestata perché anche se lavori non ricevi mensilmente il tuo stipendio, venendo costretto a chiedere aiuto ai tuoi genitori (ammesso che possano farlo) può essere definito solo in un modo: sfruttamento. Quello che per lo Stato è un semplice “rimborso spese” da accreditare chissà quando, per molti è la sola fonte di reddito a disposizione.
Però, si sa, in tempi di crisi come quello che stiamo vivendo pur di lavorare si fa anche questo.
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[1] Associazione Temporanea di Scopo: si tratta di un insieme di enti (università, scuole, enti di formazione, agenzie per il lavoro) riunite in gruppi (in totale sono 11 ATS), queste hanno la funzione di profilare i candidati e fare da tramite fra loro e le imprese, quindi attivare i tirocini, l’accompagnamento al lavoro, corsi di formazione.

Articolo per Siderlandia.it

venerdì 9 ottobre 2015

Polo Universitario Jonico: calo borse di studio e proposte inconcludenti

La Regione Puglia, per l’anno accademico 2015/2016, ha innalzato le soglie ISEE ed ISP da rispettare per la presentazione della domanda di borsa di studio. La decisione è stata presa per evitare che il nuovo metodo di calcolo dellISEE potesse ridurre notevolmente la platea degli idonei al bando ADISU.
Purtroppo questa misura non è bastata a tamponare gli effetti del nuovo ISEE, tra l’altro introdotto dal Governo senza una reale sperimentazione. Analizzando le graduatorie pubblicate sul sito dell’ADISU Puglia, in riferimento agli anni accademici 2014/2015 e 2015/2016[1] su base regionale si registra un calo degli idonei di circa il 21% fra gli iscritti agli anni successivi al primo, e di circa il 33% fra gli iscritti al primo anno: in tutto 3836 idonei in meno rispetto allo scorso anno.
A Taranto si registra un calo del 25% e del 37% degli idonei iscritti rispettivamente agli anni successivi ed al primo anno; in tutto si parla di 226 studenti che hanno perso la possibilità di percepire la borsa di studio e di usufruire delle agevolazioni sulle tasse universitarie (ovvero esonero totale e rimborso della tassa regionale versata all’atto dell’iscrizione).
Il commento di molti è “finalmente i falsi poveri smetteranno di prendere la borsa di studio”; in realtà il discorso non è così semplice perché il nuovo calcolo dell’ISEE non colpisce solo gli evasori, ma riguarda tutti indistintamente, facendo figurare più ricche le famiglie nonostante non ci siano stati cambiamenti dal punto di vista economico. E’ evidente quindi che c’è qualcosa che non funziona; oppure l’obiettivo era proprio quello: cambiare il metodo di calcolo in modo da avere meno idonei a cui erogare la borsa di studio – del resto è il metodo più semplice per eliminare il problema della mancanza di fondi per il Diritto allo Studio.
Va poi considerato che l’ISEE è il parametro che viene utilizzato per il calcolo delle tasse universitarie, quindi gli studenti si ritroveranno inevitabilmente a pagare delle rate più alte a fronte di una costante diminuzione dell’offerta formativa e dei servizi del Polo Jonico.


Questa è la situazione che si presenta un po’ in tutta Italia: Padova ha un calo del 40% sugli idonei; nel Lazio ci sono circa 11mila esclusi su un totale di 24mila domande presentate; in Toscana ed Emilia si registra rispettivamente un calo del 25% e 18%. Dati sicuramente allarmanti: ci sono studenti che senza la borsa di studio o il posto alloggio non sono in grado di continuare gli studi (ci sono molte testimonianze su questo gruppo FB), e per questo LINK ha lanciato campagna IO NON RINUNCIO! affinché vengano applicati dei correttivi per risolvere questa situazione.
Considerando anche la disattivazione del corso di Beni Culturali, questo anno accademico è cominciato davvero male per il Polo Jonico. Basti pensare che l’anno scorso il 17% della popolazione studentesca universitaria ha usufruito dei benefici ADISU: togliere anche le borse di studio significa provocare una ulteriore diminuzione degli studenti del Polo Jonico (negli ultimi anni c’è stato un calo di circa 1500 studenti).
In questa situazione potrebbe intervenire il Comune di Taranto, utilizzando l’ultima tranche dei fondi relativi al vecchio accordo di programma per erogare delle borse di studio – come in realtà è accaduto in passato -, ma a quanto pare i progetti son diversi.
Recentemente sulla stampa locale si è parlato di Master post laurea per il “miglioramento dell’offerta formativa”. La proposta lascia un po’ perplessi, considerato che si potrebbero usare quei fondi per questioni più urgenti, come il miglioramento della didattica dei corsi di laurea.
Un Master ha valore (cioè fa curriculum e da un valore aggiunto alla formazione dello studente) nel momento in cui viene conseguito in un contesto ricco di grandi (e soprattutto famose) aziende o Enti importanti, dove lo studente ha una vasta scelta per acquisire esperienza “sul campo”, e soprattutto l’imprenditore ha voglia di formare una persona per poi magari assumerla nella propria azienda (insomma un tipo di cultura imprenditoriale che nel nostro territorio è quasi inesistente). A questo punto c’è da chiedersi: chi pagherebbe per fare un Master a Taranto? E se anche ci fossero delle borse di studio, quale beneficio potrebbe trarre lo studente un Master organizzato alle condizioni appena descritte? E soprattutto, considerando i centinaia di Master sparsi in tutta Italia (sicuramente organizzati meglio di quanto si possa fare qui), il Polo Jonico riuscirebbe ad attirare studenti dalle province limitrofe?
L’unico modo per attrarre studenti a Taranto è agire sulle cose principali, cioè sui corsi di laurea. Questi presentano un bel po’ di problemi, considerato che ogni anno vengono disattivati esami, e ciò provoca difficoltà sia organizzative che formative. Infatti a volte si tratta di esami fondamentali per la preparazione degli studenti; tanto per fare un esempio: gli iscritti al vecchio corso di Economia e Commercio di Taranto devono recarsi a Bari per sostenere l’esame di Economia Politica II, perché è stato disattivato e qui non c’è nessun modo per creare la commissione d’esame. Ormai l’Economia Politica si studia in un unico esame, e questo per un corso di laurea basilare in Economia rappresenta un problema per la didattica se non c’è un altro esame dello stesso ambito. Infatti, dando uno sguardo ai piani di studio delle altre sedi universitarie pugliesi, si nota che se al primo anno c’è l’esame di “Istituzioni di Economia Politica” (esame unico, anziché due esami divisi in due anni); al secondo c’è comunque un esame simile come ad es. Politica Economica, Econometria, o Scienze delle Finanze (quest’ultimo è sparito dal piano di studi della triennale di Taranto già da qualche anno).
La qualità è tutto: da quella dipende la fuga di cervelli dalla nostra città e la capacità di attrarre studenti fuori sede: solo così si sviluppa una città universitaria. Considerato che il nostro territorio non è ricco di imprese ed enti nei quali si possa fare una formazione pratica, non è necessario spendere soldi in Master: basta creare più convenzioni per lo svolgimento delle ore di tirocinio previste dal piano di studi di ogni studente.
Resta aperta anche la questione di Palazzo Delli Ponti, restaurato in parte dal Comune e donato all’Università, la quale doveva portare a termine i lavori e creare sale studio per gli studenti, uffici per la segreteria, e la biblioteca per il Corso di Laurea in Beni Culturali (ormai disattivato).
Il palazzo è in stato di abbandono ed è stato danneggiato dai vandali. Bisogna chiarire se l’Università ha davvero intenzione di farci qualcosa, altrimenti il Comune deve decidere diversamente, cioè utilizzarlo per creare autonomamente uno spazio per gli studenti.
Il Sindaco ha nuovamente azzerato la Giunta. Ora resta da vedere se verrà nominato subito un assessore all’Istruzione, oppure se questa delega cadrà nel dimenticatoio (come accade spesso ormai). E’ necessario avere un assessore stabile e soprattutto competente: i problemi sono tanti e c’è bisogno di qualcuno che sappia lavorare con l’Università per il miglioramento delle condizioni del Polo Jonico.
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[1] Il dato sugli idonei iscritti al primo anno è provvisorio, in quanto la graduatoria definitiva verrà pubblicata a fine ottobre. Tuttavia si può ritenere un dato attendibile in quanto tra graduatorie provvisorie e definitive non vi sono mai sostanziali differenze.

Articolo per Siderlandia.it

lunedì 4 maggio 2015

La vera “Buona Scuola” scende in piazza il 5 Maggio

Corteo Studenti del 10 Ottobre 2014, Roma. [Foto di Claudio Peri – Ansa]
A sentir parlare il Ministro Giannini, la “Buona Scuola” di Renzi è una riforma epocale che porterà l’eliminazione del precariato, una didattica di qualità, miglioramento delle strutture. Ecco perché si stupisce quando viene contestata, ed arriva addirittura a chiamare “squadristi” quelli che manifestano contro di lei con qualche urlo e dei cartelli in mano, affermando che si tratta di gente che la riforma non l’ha nemmeno letta, considerando che (secondo lei) si parla a sproposito di privatizzazione delle scuole pubbliche ed instaurazione di un sistema di clientelismo fra presidi e docenti.
C’è però un dato di fatto, le manifestazioni contro la “Buona Scuola” si sono diffuse su tutto il territorio nazionale (il 23 aprile c’è stato un flash mob anche a Taranto) ed i sindacati hanno indetto lo Sciopero Generale Nazionale della Scuola, al quale si uniranno anche gli studenti. Loro il DDL lo hanno letto, ed hanno fatto delle osservazioni interessanti che si discostano parecchio dagli slogan di Renzi.
Fin dai primi articoli del DDL si comprende l’idea di Scuola di Renzi: un ente di formazione finanziato con soldi pubblici ma che in parte diventa privato e viene gestito dal Preside-Manager, il quale vede aumentare in modo esponenziale i propri poteri decisionali e non si deve limitare a saper organizzare al meglio le attività didattiche ed il personale, ma deve cercare di rendere “appetibile” il proprio istituto agli occhi dei privati e delle famiglie per far in modo di avere ulteriori fondi da poter impiegare nella didattica.

lunedì 13 aprile 2015

Beni Culturali rischia la chiusura: ennesimo colpo per il Polo Universitario Jonico

Ogni corso di laurea per essere attivato ha bisogno dei docenti “garanti” che variano in funzione degli immatricolati; viene inoltre richiesto un numero preciso di docenti per ogni categoria (es. professori, ricercatori ecc..): questi criteri vennero inaspriti dal Decreto Ministeriale 47/2013 dell’ex Ministro Profumo e poi leggermente modificati dall’exMinistro Carrozza (senza novità significative). Considerando che, rispetto alla normativa precedente al D.M. 47/2013, viene chiesto un numero maggiore di garanti, e che le Università non possono assumerne di nuovi a causa del blocco del turn-over (vanno in pensione più docenti rispetto a quelli assunti), molti corsi vengono chiusi.
Proprio per la mancanza dei requisiti imposti dalla normativa sull’accreditamento dei corsi di laurea il Corso di Beni Culturali di Taranto potrebbe non essere attivato il prossimo anno, dal momento che alcuni dei docenti garanti sono andati in pensione e non possono essere sostituiti. Il problema non è solo tarantino: il SATA (Dipartimento in Scienze dell’Antichità e del Tardoantico, al quale afferisce il corso di Beni Culturali di Taranto) è in difficoltà anche sulla gestione del corso di Beni Culturali di Bari; a questo proposito si sta pensando di unire i dipartimenti di Filosofia, Letteratura, Storia e Scienze Sociali (FLESS) ed il SATA per non avere problemi sulla questione dei docenti garanti dei corsi e quindi essere obbligati a disattivarne altri.
Ovviamente, dopo la diffusione della notizia è aumentata la preoccupazione tra gli studenti, perché di difficoltà del corso si parla da anni, ma questa volta le probabilità di chiusura sono alte. Alcuni studenti hanno anche creato una pagina FB ed un sito internet dove rivendicano il loro diritto ad avere un corso di laurea in Beni Culturali in una città come Taranto che, come sappiamo, è sostanzialmente un sito archeologico a cielo aperto; sarebbe quindi un controsenso chiudere un corso che forma le generazioni future in questo ambito; è stata anche presentata una lettera al Sindaco per chiedere l’intervento delle istituzioni.

martedì 31 marzo 2015

PUGLIA: AUMENTANO LE SOGLIE ISEE/ISP PER LE BORSE DI STUDIO



Con il Dpcm n. 159/2013 dal 1° gennaio 2015 sono entrati in vigore i nuovi criteri per il calcolo dell’ISEE (indicatore situazione economica equivalente), parametro utilizzato per l’ottenimento di varie agevolazioni economiche, tra cui l’accesso alle borse di studio ADISU e l’esonero parziale o totale dalle tasse universitarie.
Gli studenti universitari sono decisamente penalizzati da questo nuovo tipo di calcolo, in quanto ora vengono inclusi i redditi esenti da Irpef (quindi anche la borsa di studio percepita nell’anno precedente) mentre i redditi di fratelli e sorelle, che prima venivano considerati solo nella misura del 50% del loro ammontare, ora concorrono per intero alla formazione dell’indicatore. Come già accennato in un precedente articolo, si calcola in media un aumento di 2000€ dell’ISEE per richiedente, al quale non corrisponde un aumento della ricchezza reale del nucleo familiare.
Questo genera un paradosso abbastanza singolare: prima vieni considerato idoneo a ricevere la borsa di studio perché il reddito del tuo nucleo familiare non ti consente di sostenere le spese universitarie, l’anno dopo invece potresti rimanere escluso dalla platea degli idonei perché la borsa di studio percepita l’anno precedente (ed utilizzata per sostenere le spese universitarie) viene considerata una fonte di reddito ai fini del calcolo dell’ISEE, quindi non si capisce con quali soldi si debbano sostenere le spese dell’anno successivo.
Quella appena descritta è la situazione in cui potrebbero trovarsi gli studenti che l’anno scorso avevano un ISEE molto vicino alla soglia massima, altri invece potrebbero ritrovarsi nella condizione di avere ancora diritto alla borsa di studio ma percepirla con un importo inferiore (ci sono scaglioni di reddito differenti ai quali corrisponde un diverso importo di borsa di studio, con un ISEE maggiore ci si potrebbe ritrovare in uno scaglione diverso rispetto all’anno precedente).

martedì 24 febbraio 2015

Università di serie A, B ed un Governo di III categoria

«Ci sono uni­ver­sità di serie A e serie B, ridi­colo negarlo»

Citando un famoso detto popolare si può affermare che Renzi, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico al Politecnico di Torino, ha scoperto l’acqua calda. Dell’esistenza degli atenei di serie A e B infatti ne sono ben consapevoli gli studenti, che non solo non lo negano, ma da anni denunciano il divario esistente  tra l’offerta formativa ed i servizi erogati, ad esempio, dalle università del Nord e da quelle del Sud. Ne sono ben consapevoli anche i laureati: in effetti anche se nessun governo è ancora riuscito ad abolire il valore legale del titolo di studio (l’ultimo tentativo è stato quello del Governo Monti) è ormai noto che molte aziende preferiscono candidati laureati in determinati atenei piuttosto che in altri, come se la preparazione ed il valore di una persona si possa giudicare a seconda del posto in cui ha studiato. Insomma, se si ha in mano una laurea conseguita presso un ateneo che non gode di buona credibilità, probabilmente non si viene nemmeno chiamati per il colloquio, anche se ad esempio il candidato ha frequentato uno dei corsi migliori di quell’ateneo oppure ha acquisito ulteriori conoscenze al di fuori dell’università e quindi complessivamente potrebbe essere più preparato del collega laureato nell’università di “serie A”.

lunedì 2 febbraio 2015

Cosa offre Taranto ai laureati in economia?

Secondo i dati Almalaurea nel 2013 a Taranto ci sono stati 137 laureati (91 con titolo triennale, e 46 con laurea magistrale). A questi poi vanno aggiunti quelli che conseguono il titolo in altra città e tornano a Taranto dopo aver completato gli studi. Una volta constatato questo dato viene spontaneo domandarsi dove possano essere impiegati 137 laureati in economia nella nostra città: non starò qui a snocciolare dati, ma racconterò le esperienze di varie persone che ho conosciuto durante il mio percorso di studi.
Fondamentalmente i laureati in economia si dividono in due gruppi: quelli che vogliono intraprendere la libera professione (es. commercialisti) e quelli che non vogliono farlo. Questi ultimi potenzialmente potrebbero trovare vari impieghi: banche, istituti finanziari, aziende di vario tipo, enti pubblici, enti di formazione;  peccato che a Taranto ci sia poco o nulla di tutto questo. Le aziende sono davvero poche, quelle che assumono ancora meno e soprattutto non vi è un canale “sicuro” attraverso il quale domanda ed offerta di lavoro si incontrano: la maggior parte degli annunci che si trovano in rete o sui giornali alla fine si rivelano il solito “porta a porta” (che di certo non è un lavoro da disprezzare, ma non è nemmeno corretto pubblicare un annuncio dove viene offerta una determinata mansione per poi rifilarne un’altra). Certo ci si può iscrivere alle numerose agenzie interinali, ma non tutte le aziende ricorrono a questo sistema per la ricerca di personale, alcune non pubblicano le offerte di lavoro nemmeno sul proprio sito internet (sempre se ne hanno uno).
Nella maggior parte dei casi se si ha la fortuna di trovare impiego in un’azienda si tratta di mansioni amministrative/contabilità, gli istituti finanziari offrono quasi sempre contratti a provvigione per la vendita di prodotti finanziari, le banche raramente assumono e comunque quasi sempre non tengono conto dei curriculum dei neolaureati ma trasferiscono giovani (originari di Taranto) che lavorano in altre città (della serie, se vuoi lavorare in banca a Taranto devi farti assumere in qualche altra città e sperare che un giorno ti trasferiscano).

lunedì 8 dicembre 2014

Diritto di cambiare dal basso

Ogni volta che si parla degli Enti Pubblici – da quelli locali a quelli nazionali – si riscontra un malessere diffuso dei cittadini, i quali lamentano la mancanza dei servizi essenziali e si domandano con quali criteri vengano amministrati gli Enti, se gli introiti derivanti dalle proprie tasse vengano gestiti in modo trasparente e soprattutto per il benessere comune.
Il nostro è un paese dove disuguaglianze e povertà si stanno diffondendo a macchia d’olio, gli scontri e l’aumento della criminalità nelle “periferie” rappresentano il fallimento dell’Ente Locale il quale, in determinati contesti, non è in grado di risolvere specifiche situazioni di degrado perché non dialoga con i propri cittadini, abbandonandoli al proprio destino.
Secondo ActionAid – organizzazione internazionale indipendente impegnata nella lotta alle cause della fame nel mondo, della povertà e dell’esclusione sociale – questa situazione dipende dalla presenza di «squilibri di potere, campanilismo, ed approccio opportunistico alla vita pubblica». Se da un lato ci sono amministratori che gestiscono male la cosa pubblica, dall’altro ci sono alcuni cittadini che non risultano propositivi o comunque non conoscono gli strumenti che hanno a disposizione per “costringere” le varie amministrazioni locali ad agire nel modo più giusto. ActionAid afferma che oggi si può lottare contro la povertà e l’esclusione sociale, il primo passo è cominciare ad interrogarsi sulla qualità dell’operato delle istituzioni e sulla loro accountability  intesa come la “capacità delle istituzioni sia di realizzare impegni elettorali e accordi internazionali sia di svolgere la propria funzione in modo trasparente e partecipato”.

mercoledì 26 novembre 2014

Reclutamento degli insegnanti: dal TFA alle Magistrali Abilitanti

Con il Decreto Ministeriale n. 249 del 10 settembre 2010 l’ex Ministro Gelmini ha eliminato le vecchie Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario (SISS) ed introdotto un nuovo strumento per acquisire l’abilitazione all’insegnamento: il TFA (Tirocinio Formativo Attivo).
Il TFA non è altro che un corso di formazione universitario a numero chiuso di 1500 ore totali (60 CFU) di cui 475 ore (19 CFU) fanno parte del tirocinio vero e proprio all’interno delle scuole, possono accedervi solo coloro in possesso della laurea specialistica/magistrale.
Questo metodo di “formazione” degli insegnanti ha dei grossi limiti. Il primo è quello che riguarda la didattica: se si dà uno sguardo ai programmi dei corsi previsti per ogni classe di insegnamento (qui ad esempio ci sono quelli dell’UNIBA relativi al TFA 2011/2012) si può notare che, escludendo gli esami di pedagogia ed i relativi laboratori, la restante parte dei corsi consiste in una breve ripetizione di ciò che è stato studiato durante il proprio percorso universitario, cosa di cui si potrebbe fare sicuramente a meno, per dare più spazio al tirocinio presso gli istituti scolastici – il quale rappresenta una parte davvero esigua del percorso del TFA, solo il 30% delle ore totali.
Un altro grosso problema del TFA è il costo elevato: le quote di iscrizione fissate dai vari Atenei variano dalle 100€ alle 150€, mentre il costo del corso varia dai 2500€ ai 3000€. Va poi precisato che per accedere alle varie classi di concorso è necessario possedere un numero preciso di CFU in determinati settori scientifici disciplinari (SSD) e, nel caso in cui durante il proprio percorso universitario non siano stati acquisiti, per poter partecipare alle selezioni per il TFA bisognerebbe iscriversi ai corsi singoli. Questi hanno dei costi non indifferenti, basti pensare che l’UNIBA, nell’approvazione del nuovo piano di rientro, ha aggiunto al contributo fisso di 350€ (già esistente) per i corsi un supplemento di 50€ per ogni credito formativo riferito al singolo insegnamento.
Questi costi devono essere sostenuti per intero indipendentemente dalla condizione di reddito, a differenza dei normali corsi di laurea infatti la tassazione non è proporzionata all’ISEEU e inoltre non sono previste borse di studio/posti alloggio; quindi, oltre a pagarsi il TFA, bisogna affrontare interamente anche le spese per di alloggio o del viaggio per frequentare i corsi. In poche parole possono acquisire l’abilitazione all’insegnamento solo coloro che “se lo possono permettere”.

Il Governo Renzi ha intenzione di cambiare il sistema di abilitazione degli insegnanti, attivando le c.d. “magistrali abilitanti”. Si tratta di corsi di laurea biennali (comprensivi di tirocinio nelle scuole) ai quali si può accedere dopo aver conseguito la laurea triennale, ovviamente a numero chiuso – il Ministero stabilirà i posti disponibili a seconda delle necessità di reclutamento. A pagina 41 del testo sulla “Buona Scuola” di Renzi si legge che «nel corso del biennio di specializzazione, seguirà corsi di didattica e pedagogia, e in generale materie mirate sul lavoro di formazione e crescita dei ragazzi. Chiaramente specifici bienni specialistici potranno funzionare anche per materie affini, evitando di doverne istituire uno diverso corrispondente con rapporto 1:1 a ogni diverso tipo di laurea oggi esistente».
In questo modo verrebbe superato il problema dei costi, perché trattandosi di corsi di laurea gli studenti avrebbero tutti i benefici economici del caso, ma a quale prezzo?